Volto di Cristo

Autore
Allegri Antonio, detto Il Correggio
Periodo
XVI secolo
Tecnica
Olio su tela
Supporto
Tela
Dimensioni
Lungh.: 18 cm Alt.: 24 cm
Sala
Rinascimento
Provenienza
Proprietà Fondazione Il Correggio
Datazione
1519 - 1520 ca.

A lungo in Francia, dove venne ripreso da Pierre Mignard nel XVII secolo, la piccola tavola rivela un’estrema sicurezza esecutiva, una forza costruttiva ed espressiva, come sottolineato da Sylvie Béguin  con esplicita convinzione.
I pesanti danni sofferti nel corso dei secoli sono stati risarciti da un estesissimo restauro effettuato negli Anni Novanta del Novecento, prima dell’acquisto da parte della Fondazione Il Correggio.
Variante di quest’opera può essere considerata una Testa di Cristo, leggermente più grande rispetto a questa, conservata presso il Paul Getty Museum di Los Angeles.

Riccomini, 1993: alcuni anni fa Cecil Gould, nella sua monografia, pubblicò un volto di Cristo, già noto al Waagen, ma fino ad allora seminascosto in una raccolta privata inglese, nel Sussex (Gould 1976, p. 123). Il Gould riteneva probabile l’autografia del dipinto ed istituiva convincenti paragoni tipologici con l’Ecce Homo della National Gallery londinese. Si potrebbe pensare, tuttavia, ad una datazione un poco più precoce, attorno agli anni degli affreschi in San Giovanni Evangelista: perché alla tipologia rotondamente raffaellesca e romana s’accompagnano echi ben evidenti dei modi di Leonardo, nell’impalpabile digradare dell’ombra sul volto, nella fattura intricata e minutamente attorta dei capelli. Quel dipinto inglese è, assai probabilmente, una ripetizione un poco più matura nel tempo di questa tavoletta finora inedita e che già Roberto Salvini riconobbe al Correggio, in una lettera privata. Un attento esame del dipinto, condotto anche nelle varie fasi del suo restauro, conduce quasi inevitabilmente alla convinzione della sua autografia. L’impronta stilistica generale, non c’è dubbio, richiama subito alle labbra il nome del Correggio.
Ma ciò, ovviamente, non basta. E’ piuttosto un’analisi della forma, e del disporsi della materia pittorica nel modellarla, che riduce sempre più gli eventuali margini di dubbio. La tipologia, ad esempio, segna una chiara rottura col disegno affilato della tradizione emiliana della precedente generazione (del Costa, del Francia) e si richiama piuttosto a modelli formatisi in area toscana (tra Fra’ Bartolomeo e Andrea del Sarto); e soprattutto denuncia, a mio avviso, una recente adesione alla nuova classicità romana del Raffaello delle prime Stanze vaticane. E tuttavia il modello raffaellesco appare, qui, come destituito della sua certezza disegnativa, della sua impassibile perfezione. Il Correggio, infatti, non rinuncia a mantenere, entro il nuovo canone proporzionale, un vago sentore tra il patetico e il colloquiale, traccia della mai cessata ammirazione per Leonardo nella sua lunga attività lombarda. E ciò non solo per l’affiorare del sorriso sul volto dolcemente addolorato. Si veda, piuttosto, come il disegno, che pur saldamente sorregge la conformazione dell’immagine, non appaia mai in evidenza. L’ossatura del volto, ben accusata (nelle arcate sopraciliari, negli zigomi), ci è rivelata da un appena sensibile crescere di spessore della materia pittorica che imita, nella sua corposità, la fisicità della carne; mutando insensibilmente di tinta, dal bianco al rosato fino al tocco vermiglio del labbro, così come appunto avviene sull’epidermide vera d’un volto umano.
E questa naturalezza, questa verosimiglianza s’accresce nel mosso fluire della massa dei capelli, smagriti di materia dalle antiche puliture eppure ancora vibranti e dotati di profondità: specie ove le ciocche fuoriescono dalla chioma, segnando una distanza dalla luminosità dorata del fondo. Su questa luce di fondo si percepisce anche il sottile volume della corona di spine, e della foglia che vi è rimasta attaccata, o del gambo tagliato di sghembo: e tutto ciò concorre a quell’illusione di verità assieme ottica e materica, ch’è il segno distintivo della pittura del Correggio. Né, credo, si può pensare a qualche suo precoce imitatore.
Il Correggio non ebbe alcun vero allievo, né seguaci immediati. Tra i pochi che più sentirono il suo fascino, né il fare rustico e un po’ pesante del Rondani, né la definizione capziosa e insistita di Giorgio Gandini del Grano hanno parentela con il linguaggio fluente e naturale di questo dipinto. E nemmeno è possibile avanzare l’ipotesi d’un eccessivo spostamento di data, in tempi di revivalismo correggesco attorno agli anni ottanta del secolo: la fattura, qui, appare palpitante ma trattenuta, e non concede nulla alla libertà del tocco, come sarebbe avvenuto in ogni omaggio al maestro, dai Carracci in poi.
Un nuovo dipinto del Correggio, quindi. Resta in forse, però, il problema della sua collocazione cronologica. Il Salvini, in quella sua lettera, pensava ad un’opera relativamente giovanile: non troppo lontana dalla Madonna del San Francesco di Dresda, attorno al 1515. Gli studi recenti (del Gould, del Brown soprattutto) ci hanno insegnato che nella cultura del giovane Correggio, prevalentemente settentrionale, possono per tempo essere inserite informazioni sul gusto toscano di quegli anni. E anche a me sembra sempre più probabile un rapporto diretto fra la pala del San Francesco e il gusto maturato a Firenze tra il soggiorno di Raffaello e l’attività di Fra’ Bartolomeo nel terzo lustro del secolo. In questo piccolo dipinto, tuttavia, mi appare evidente la conoscenza diretta dei modi seguiti da Raffaello a Roma. E mi pare evidente il deciso abbandono di tutte quelle esitazioni, di quelle deliziose incertezze che ancora s’avvertono in opere pur sicuramente autografe e di poco precedenti l’ormai indiscutibile viaggio romano, come la pala con i quattro santi, del Metropolitan.
D’altra parte, una certa residua esilità nella struttura del volto che distingue questo Cristo dalla sua già citata replica di raccolta inglese (e ne giustifica la precedenza nel tempo) induce invece a supporre che quella svolta non abbia ancora del tutto cancellato il ricordo delle precedenti esperienze. Ci troveremmo, quindi, in una zona d’aurorale adesione ai modi romani che tocca dipinti contigui alla decorazione della Camera di San Paolo, come il Noli me tangere del Prado o la Sacra Famiglia di Hampton Court. Lì, come qui, il Correggio registra di certo la sovrana bellezza del modulo raffaellesco; senza restarne succube, e convertendola ad una più naturale ed accostabile colloquialità, che sarà per sempre il segno della parlata pittorica lombarda. [ER]