Ritratto di Marcello Donati

Autore
Ignoto pittore inizi XVII secolo
Tecnica
Olio su tela
Supporto
Tela
Dimensioni
Lungh.: 81 cm Alt.: 109 cm
Sala
Salone degli Arazzi
Provenienza
Collezioni comunali
Datazione
Inizio XVII secolo

Marcello Donati (1538 – 1602), nacque a Mantova da Ettore, orefice da Correggio (secondo alcune fonti anche il D. sarebbe nato a Correggio), e da Laura Pomponazzi, gentildonna mantovana, figlia del celebre medico Pietro.

Si sa poco della sua fanciullezza; due volte contrasse la malaria: la prima volta la malattia durò diciotto mesi, la seconda poco meno di un anno. Studiò latino, greco, spagnolo, francese e anche filosofia, eloquenza, letteratura latina, greca e italiana. Iniziò gli studi di medicina a Mantova avendo come maestro Francesco Facini, medico del duca Guglielmo Gonzaga. Li continuò poi a Padova, poiché – fino al 1562 – a Mantova non si conferivano lauree, e a Padova si laureò il 17 luglio 1560.

In questa università, nel giro di pochi anni, dal 1543 al 1546, era stato inaugurato il metodo dimostrativo in anatomia, in botanica, in clinica, e si erano fissate le basi dell’epidemiologia e della patologia moderne. Il soggiorno padovano fu particolarmente importante per la formazione culturale del D., che conobbe tutte le nuove teorie e avvicinò i professori che stavano rivoluzionando la tradizione galenica e l’anatomia tradizionale.

Donati fu ammesso al Collegio dei medici di Mantova il 12 ottobre 1560, subito dopo la laurea; è probabile dunque che egli a Padova avesse già effettuato il tirocinio pratico, sotto la guida di qualche professore. In breve si fece conoscere nella sua città come medico e uomo di cultura. Non ancora ventiquattrenne, fu ammesso all’Accademia degli Invaghiti, prima come “segreto”, poi, a ventisei anni, venne designato quale vicerettore. Si poteva così fregiare del titolo di cavaliere in forza del privilegio concesso da papa Pio IV. Di quella Accademia fu in seguito rettore, dal 1576 al 1599, e in quella sede lesse lavori suoi di letteratura, poesie e dissertazioni su vari argomenti. La medicina rimaneva tuttavia il suo campo specifico di studio e di attività.

Ebbe modo di discutere di anatomia con personalità illustri, tra gli altri lo spagnolo Juan Valverde de Hamusco, autore di una Historia de la composición del cuerpo humano, illustrata con 42 tavole, uno dei libri più letti dell’epoca.

Dovette conoscere Ulisse Aldrovandi, che cita il suo nome in due documenti; fu amico di Alfonso Pacio, ferrarese, il quale in una lettera del 15 aprile 1570 annuncia che Donati sta traducendo dallo spagnolo in latino “l’opera del dottor Nicolosa”, forse Nicolás Monardes, e comunicava di aver ricevuto in dono i libri del Donati “de variolis et morbillis et un discorso del Mechoachan”. Ebbe infine una proficua collaborazione anche con il medico Cavallara.

Seguendo le nuove correnti di anatomia, arricchì il proprio gabinetto di preparazioni anatomiche, incise di sua mano numerosi cadaveri e annotò molte osservazioni di casi clinici. Conosceva gli autori arabi di medicina, oltre a quelli greci e romani, e di questa pratica si avvalse nella compilazione delle sue opere.

Il De variolis et morbillis tractatus fu scritto in occasione di una epidemia di vaiolo che infierì nel 1567 a Mantova; qui fu pubblicato nel 1569, “Apud P. & C. Philoponos”, con in appendice De radice purgante quam Mechioacan vocant.

Il trattato è dedicato all’arciduca Carlo d’Austria; e Donati afferma di essere stato spinto da amici dottissimi a dare alle stampe le sue “elucubrationes”. L’opera – che fu ristampata nel 1591 e nel 1597 presso lo stampatore ducale Francesco Osanna – è divisa in 30 capitoli. Nell’operetta in appendice descrive le caratteristiche della pianta, la sostanza che se ne estrae dalla radice, le sue proprietà farmacologiche e anche la tecnica della preparazione farmaceutica. Dalla prima pagina dell’opera si ricava che egli lesse avidamente un opuscolo, in lingua spagnola, di Nicolás Monardes, dal quale fu indotto a sperimentare le mirabili proprietà della radice. Di qui lo scritto di Donati, tradotto tra l’altro in francese da P. Tolet e pubblicato a Lione (M. Jove) nel 1572.

Fu anche studioso di botanica: nel giardino della sua casa, in contrada Leone. Vermiglio, sistemò un orto botanico ricco e ben ordinato, in cui radunò piante note e piante esotiche, i nuovi vegetali provenienti dal Nuovo Mondo di cui voleva sperimentare l’efficacia medicamentosa. Nella sua casa ordinò anche un museo eclettico, di gusto tipicamente tardorinascimentale, una raccolta di oggetti in qualche modo straordinari, preziosi o inconsueti, capaci di suscitare meraviglia: iscrizioni marmoree classiche, sculture, medaglie, prologhi, libri, oggetti che alla sua morte finirono, in buona parte, ai Gonzaga.

Con la famiglia ducale Donati ebbe rapporti stretti: il 26 ottobre 1574 fu nominato medico ducale, con uno stipendio annuo di 50 ducati d’oro. Fu anche precettore e segretario di Vincenzo Gonzaga (la nomina è del 26 settembre 1577), che lo volle anche, a titolo di solenne onorificenza, suo consigliere (1583). Dal 1577 rinunciò alla pratica medica, poiché il duca Guglielmo stimava più necessaria la sua opera come uomo di Stato. In questa veste ebbe numerosi e delicati incarichi.

Nel 1581 fu inviato a Parma a visitare la giovanissima Margherita Farnese, appena andata sposa al principe Vincenzo e che si sospettava incapace di consumare le nozze e di assicurare la discendenza. Interrogato Vincenzo e visitata la consorte, Donati inviò a Mantova alcune lettere in cui diagnosticava la necessità di intervenire chirurgicamente sulla giovane, senza peraltro poter dare assicurazioni sul buon esito dell’intervento. Il medico dei Famese, Girolamo Fabrici d’Acquapendente, era stato meno drastico. Nel 1582, comunque, Margherita fu rimandata a casa. Papa Gregorio XIII nominò allora arbitro della questione il cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo. Questi ascoltò il parere dei medici più illustri convocati a Parma per dimostrare la guaribilità della giovane sposa. Da ultimo dovette risolvere il caso – evidentemente politico oltre che medico – decidendo tra una relazione del celebre chirurgo Andrea da Fano e il parere di Donati, il quale temeva che l’eventuale operazione sarebbe stata mortale per Margherita. Il Borromeo si convinse della seconda ipotesi e persuase la Farnese a ritirarsi in convento per consentire il processo di annullamento del matrimonio. Fu ancora Donati a intervenire, come medico e uomo di fiducia dei Gonzaga, nel marzo del 1584, per garantire con una “prova di matrimonio” voluta dai Medici che il giovane Vincenzo era in grado di consumare le nozze e poteva essere dato in sposo senza timori alla principessa Eleonora. All’episodio della “prova”, avvenuto a Venezia alla presenza del Donati, fu per molto tempo e ingiustamente legata la fama di quest’ultimo, che, all’inizio delle trattative tra le due case, si era sforzato inutilmente di sfatare le dicerie sul conto del principe.

In qualità di segretario di Vincenzo Gonzaga, il Donati ebbe anche parte nella liberazione di Torquato Tasso dall’ospedale di S. Anna di Ferrara. A lui il poeta indirizzò alcune lettere tra il 1581 e il 1585 per sollecitare l’attenzione del principe sul suo caso. Donati seguì Vincenzo nel suoi viaggi in Monferrato, in Toscana, in Germania, e fu inviato in missione diplomatica più volte presso varie corti, a Parma, a Ferrara, a Firenze.

Le sue qualità politiche, l’eloquenza, la notevole perspicacia, la sua capacità di trattare affari complessi e delicati lo fecero apprezzare anche fuori Mantova: Ferrante II Gonzaga, signore di Guastalla e Ferdinando I di Toscana lo tenevano in grande considerazione.

Vincenzo Gonzaga, divenuto duca nel 1587, lo creò l’anno successivo conte e feudatario del castello di Ponzano nel Monferrato, con titolo trasmissibile ai discendenti.

Nel 1586, intanto, erano stati stampati a Mantova, presso Francesco Osanna, i 6 libri della De medica historia mirabili, la sua opera maggiore, ampia raccolta di casi clinici e di osservazioni anatomiche personali, di autori antichi, arabi, medievali e contemporanei, tra le prime del genere, anticipatrice di quella tendenza alla compilazione di ampie casistiche clinichee anatornopatologiche che nel XVIII secolo avrà il suo massimo autore in Giovanni Battista Morgagni. Donati fu il primo, tra l’altro, a descrivere l’ulcera gastrica in cadavere e l’edema cosiddetto di Quincke.

L’opera ebbe notevole fortuna: ristampata a Venezia, da Valgrisi, nel 1588, ebbe una nuova edizione con aggiunte sempre a Venezia, presso i Giunti, nel 1597. Il medico tedesco Gregorio Horst curò altre due edizioni a Francoforte nel 1613 e nel 1664. Il libro ha una notevole importanza anche dal punto di vista della storia sociale: vi sono raccolti infatti anche casi singolari e meravigliosi che il gusto dell’epoca ricercava.

Marcello Donati si era sposato trentunenne, l’8 gennaio 1569, con Cecilia Laziosi, nobile, ricca vedova del medico ducale Gian Maria Facini, alla quale premorì. Con queste nozze Donati, medico già affermato e accademico, si doveva proporre, certo, non tanto ricchezze, quanto un più facile accesso alla carica di medico ducale.

Invano Donati si affannò per trovarsi degli eredi: Gerolamo, il fratello più giovane, morì nel 1579; l’altro fratello, Federico, morì nel 1581. Lo stesso anno Donati nominò erede il cugino Giulio e, in caso di sua morte, Nicolò, fratello di Giulio. Entrambi però morirono senza successori. Nel 1601 ebbe finalmente la consolazione di vedere il matrimonio del cugino Federico coronato dalla nascita di un figlio, Giovambattista. Con testamento del 1599 nominò la moglie Cecilia usufruttuaria della propria eredità e dispose che, se la linea dei Donati di Mantova si fosse estinta, le sue sostanze passassero tutte al Monte di pietà, con l’obbligo che la sua casa di abitazione venisse trasformata in scuola di logica e lettere, che si mantenessero a studiare presso qualche celebre università tre giovani poveri dotati di 60 scudi d’oro annui e che si stipendiasse un esperto botanico per la cura dell’orto da lui fondato, a beneficio di medici e speziali mantovani. Ma alla sua morte tutti i fondi assegnati per le cattedre furono venduti e anche parte della casa di contrada Leone Vermiglio – quella adibita alla raccolta delle lapidi – fu venduta all’adiacente monastero di S. Orsola fondato allora da Margherita Gonzaga. Le lapidi andarono così perdute e anche l’orto botanico cessò di esistere. Soltanto nel 1772 il Monte di pietà poté prendere possesso di quanto restava dell’eredità Donati. Nel 1780 una parte venne convertita per l’apertura di un nuovo giardino botanico.

Morì a Mantova l’8 giugno 1602, colpito da insulto apoplettico. Il cugino Federico, suo erede, ne fece erigere il monumento funebre in S. Francesco a Mantova.

Fonti e Bibl.: La voluminosa corrispondenza ufficiale del D. è conservata nell’Archivìo di Stato di Mantova, per cui cfr. L’Archivio Gonzaga di Mantova, I, a cura di P. Torelli, Ostiglia 1920, e II, La corrispondenza familiare, amministrativa e diplomatica dei Gonzaga, a cura di A. Luzio, Verona 1922. Cfr. inoltre: L. Castellani, Vita del celebre medico mantovano M. D., Mantova 1788; P. Pozzetti, Elogio di M. D., Modena 1791; A. Zanca, Notizie sulla vita e sulle opere di M. D. da Mantova (1538-1602) medico, umanista, uomo di Stato, Pisa 1964; La scienza a corte. Collezionismo eclettico natura e immagine a Mantova fra Rinascimento e Manierismo, Roma 1979, pp. 57-62.