San Bernardino risana gli infermi mostrando il nome di Gesù

Autore
Preti Mattia
Periodo
Inizi XVII secolo
Supporto
Tela
Dimensioni
Lungh.: 220 cm Alt.: 305 cm
Sala
Sala del '600
Provenienza
Correggio, Chiesa di San Francesco

Il dipinto si trovava in origine nella cappella Augustoni, la seconda a destra nella chiesa di San Francesco a Correggio. Il culto di san Bernardino aveva presso gli Augustoni un’antica origine: si asseriva infatti che il santo nel 1423 fosse stato ospite della famiglia presso il casino di Campagnola. Lo stesso santo, poi, secondo una tradizione locale, avrebbe predicato anche nella vecchia chiesa di San Francesco a Correggio. Un membro della famiglia Augustoni, Augustone, aveva eretto nel 1491 un altare dedicato al santo senese nella nuova chiesa correggese di San Francesco. Negli anni 1645-46, fu costruita la nuova cappella dedicata a san Bernardino, a spese del convento per quel che riguarda la parte muraria, e a spese della famiglia Augustoni per quanto riguarda la decorazione.
Contraente del rogito del 10 aprile 1645 risulta essere stato Giovanni Battista Augustoni (1606-1690), figlio di Girolamo (morto nel 1639), consigliere di giustizia del duca di Modena. Giovanni Battista Augustoni fu un personaggio di spicco della corte estense: cavaliere di Santo Stefano, nobile di Correggio, Reggio e Modena, “creato conte di S. Raffaele nel Monferrato dal duca Ferdinando Carlo di Mantova, ricoprì l’importante incarico di ‘residente ducale’ in Napoli per il duca Francesco I d’Este, e di gentiluomo del Cardinale Rinaldo d’Este e del duca Alfonso III presso il governatore di Milano e viceré di Napoli (BCC. AMP n. 111 , Notizie sparse della famiglia Augustoni, sec. XVIII, fasc. 1 – Setti, vol. 1, cc. 105-106). Denominato tradizionalmente San Bernardino che risana lo storpio, il soggetto del quadro va identificato diversamente, poiché non vi è solo lo storpio in primo piano, ma anche altri malati e sofferenti (un giovane sciancato in ombra, una bambina, un neonato, uno zoppo che si appoggia al bastone), e gli sguardi di tutti costoro e i gesti delle persone che li accompagnano convergono verso la tavoletta recante il monogramma col nome di Gesù che san Bernardino ostende loro. Non si tratta quindi di una singola guarigione, ma di una scena corale, nella quale vengono esaltate le virtù caritative del santo – il quale “hospitalia, monasteria et pia loca, piasque ac miserabiles personas multiformiter adiuvando relevavit, crexit atque provexit” (Bernardino da Siena, Opera Omnia, Venezia 1591, vol. 1, e. 22 v) – attraverso la raffigurazione dei miracoli di cui le fonti agiografiche bernardiniane danno ampia testimonianza. Sull’assegnazione del dipinto a Mattia Preti è concorde la storiografia locale fin dalla metà del Settecento.
Antonio Alessandro Arrivabene, poi ripreso dall’Oretti e da altri (Setti, Campori), è il primo, nel 1760, a citare il quadro, situandolo nel giusto contesto all’interno della chiesa di San Francesco a Correggio: la palla dell’altare gius patronato della famiglia Augustoni dedicato a S. Bernardino da Siena del celebre pennello del cavaliere Mattia Preti da Taverna in Calabria”. Se il quadro è veramente opera del maestro calabrese, è possibile che Giovanni Battista Augustoni sia venuto in contatto con il Preti verso il 1650 a Modena, dove il pittore eseguì gli affreschi nella cappella delle Reliquie nel duomo e nella chiesa dei Carmelitani (ora di San Biagio). Il più antico biografo del Preti, De Dominici, afferma che dopo la scoperta di tali affreschi “furono al Cavaliere calabrese vari quadri commessi da’ dilettanti di Modena” e che “nella medesima città di Modena egli dipinse un quadro di altare, ma noi per molta diligenza che abbiamo usato non sappiamo il nome della chiesa né ciò che quella pittura rappresenti” (13. De Dominici, in F. Cannata, Il Cavaliere Calabrese Mattia Preti, Catanzaro 1978, p. 262). Tale dipinto potrebbe anche identificarsi con quello di Correggio (e il fatto di non trovarsi a Modena giustificherebbe le incertezze del De Dominici).
Non è allora fuori luogo supporre un rapporto diretto fra l’Augustoni e il Preti, attestato il prestigio di cui il pittore godette presso la corte estense, della quale l’Augustoni era personaggio di spicco; per di più nel suo ultimo testamento l’Augustoni disponeva, in caso di morte in Modena, di essere sepolto nella chiesa del Carmine, dove già erano le tombe di quasi tutti i suoi familiari: ciò proverebbe ulteriormente la consuetudine del nostro con la chiesa modenese dove il Preti maggiormente operò. Per quanto riguarda il soggiorno modenese del Preti, Cristina Acidini Luchinat (in I restauri del Duomo di Modena, Modena 1984, p. 117, nota 24), basandosi sulla documentazione riguardante la perduta cappella delle Reliquie nella cattedrale modenese, ha proposto di situarlo in un periodo compreso fra il 1647 e il 1653, ossia un momento intermedio fra quelli precedentemente ipotizzati dagli studiosi del Calabrese, cioè il periodo 1644-50 oppure il 1653-56. Più tardi John T. Spike (in Mattia Preti, a cura di E. Corace, Roma 1989, pp- 16 e 24-25), prendendo in considerazione una lettera di Geminiano Poggi, segretario di Francesco 1 d’Este, sulla presenza di Preti a Roma nel novembre 1652, e una documentazione bancaria attestante il pittore presente a Napoli nel marzo 1653, restrinse il periodo modenese del Preti al 1650-52, con la possibilità di un ulteriore breve soggiorno fra il novembre 1652 e il marzo 1653. L’assenza di “tenebrismo” e dei caratteri stilistici più peculiari del Calabrese ha recentemente emarginato questo quadro dal novero delle opere del Preti: sia il Pacelli che il Benati, ad esempio, pur riconoscendone l’alta qualità, escludono che la tela possa essere di mano del Calabrese, senza peraltro avanzare proposte attributive alternative.
Il Mauceri, d’altra parte, assegnando il dipinto al Preti, lo situava nel periodo maltese del pittore, e lo collegava al San Rocco del cielo della chiesa di Sarria a Floriana (Malta), databile, secondo Spike, al 1677-78. Secondo la Ghidiglia Quintavalle l’opera, attribuibile al Preti, “nonostante l’apparente diversità dal suo linguaggio maturo, riflette nella luminosità del cielo e negli scorci il carattere degli affreschi modenesi” e si caratterizza per il vigoroso realismo che impronta le figure dei monaci: ” … qui le rughe, vero motivo di ritmo, formano una rete sul volto ascetico e quasi trasparente del Santo, mentre si affondano nella carne adusta del frate visto di fronte e si perdono nell’ombra in quello dal profilo aguzzo e dal mento ricurvo”.
La studiosa parmense ravvisava nel quadro la presenza di varie influenze, dai veneti del Cinquecento a Ludovico Carracci, a Domenico Fetti a Bernardo Strozzi. In effetti l’universo carraccesco è ben vivo in questa opera, a cominciare dalla sintassi compositiva, che rimanda alla Comunione di san Girolamo di Agostino (Bologna, Pinacoteca Nazionale), mentre nello sfondo, popolato da figure di viandanti, sono rilevabili analogie con i paesaggi di Annibale, in particolare dalla Santa Margherita (Roma, Santa Caterina dei Funari) e, nella figura dello storpio, non sono da escludere ricordi dal sant’Alessio nella Madonna di San Ludovico (Bologna, Pinacoteca Nazionale) dello stesso Annibale. Puntuali sono altresì i rimandi in direzione di Giovanni Lanfranco: l’angolazione del volto dello storpio e l’atteggiamento del suo braccio destro derivano dal san Bartolomeo nella Madonna e i santi Carlo Borromeo e Bartolomeo di Capodimonte (dettagli ripetuti dallo stesso Lanfranco nella Madonna con san Lorenzo del Quirinale), mentre la testa del monaco a sinistra replica in controparte quella dell’apostolo in primo piano a destra nell’Ultima Cena di Dublino. Il realismo estremamente “spinto” del monaco in posizione frontale denuncia d’altra parte l’influenza della scuola napoletana, e in particolare del Ribera: la coesistenza nella tela di Correggio di tante e diverse componenti porta a ricercare nell’autore un pittore dalla cultura vasta e complessa.
Per questo quadro notevolmente problematico si ripropone perciò in questa sede, sia pure in forma dubitativa, e tenendo conto dell’attribuzione ab antiquo, il nome di Mattia Preti, il cui percorso artistico è segnato dall’assimilazione di svariate esperienze, dai napoletani ai veneti, dai Carracci al Guercino, al Lanfranco.
Non mancano del resto nella tela riscontri iconografici con note opere del Calabrese: il “profilo perduto” della donna in alto a destra ricompare in diversi quadri del Preti (ad esempio la Liberazione di Olindo e Sofronia di Genova e il Ritorno del figliol prodigo di Reggio Calabria), e il piccolo storpio in penombra al centro della tela ricorda i tanti “bambini in ombra” che compaiono puntualmente lungo tutta l’attività del maestro (ad esempio Scena di elemosina della Collezione De Vito, Decollazione di san Paolo di Houston, Ritorno del figliol prodigo di Capodimonte, Giobbe di Bruxelles, ecc.).[GPL – VP]

Bibliografia: Arrivabene 1760, 1 e. 81r; Oretti 1770-90 b; Setti 1840, 111, e. 28v; Campori 1855, p. 384; Chimirri-Frangipane 1914, p. 21; Frangipane 1919, p. 41; Finzi-Degani 1927, p. 22; Bertolini 1930, pp. 43-45; Mauceri 1935; p. 100; Finzi 1949, p. 58; Ghidiglia Quintavalle 1959 a, pp. 16-17, tav. 12; Finzi 1968, p. 183 ‘ tav. 171; Ghidini 1976, p. 98~ tavv. 52-53; Pignagnoli-Zagni 1980, pp. 119-120; Pavone Pacelli 1981, 11, pp. 148-149 tav. 540; Benati 1986, p. 270.